10/10/2025 | Press release | Distributed by Public on 10/11/2025 10:10
Mentre Trump attacca costantemente il multilateralismo (avendo ribadito di recente che non prenderà parte al G20 di novembre in Sudafrica), il messaggio che lancia è chiaro: America First. O meglio "America Alone", dal momento che gli interessi (di breve termine) degli Stati Uniti non sembra essere solo al primo posto ma proprio gli unici di cui intende occuparsi l'amministrazione americana.
Così non è un caso se la Cina di Xi Jinping sembri voler prendere la palla al balzo, tentando di occupare ogni centimetro diplomatico cedutogli dal presidente americano. Di recente, per esempio, Xi ha assunto il ruolo di difensore del libero commercio e Pechino promuove attivamente un modello multilaterale slegato dagli Stati Uniti, rivolgendosi soprattutto ai paesi emergenti del Sud Globale e in particolare ai BRICS.
Tuttavia, anche tra i tre "grandi" dei BRICS (Cina, India e Russia) le differenze non mancano. Per esempio, i loro legami e le interdipendenze commerciali sono fortemente sbilanciati: la Cina vale per la Russia e l'India rispettivamente il 35% e il 13% del loro commercio totale, mentre Nuova Delhi e Mosca insieme valgono meno del 10% per Pechino.
In questa fotografia dei rapporti commerciali bilaterali emergono chiaramente le conseguenze degli eventi geopolitici degli scorsi anni: l'invasione dell'Ucraina ha obbligato la Russia a cercare nuovi acquirenti per le proprie risorse energetiche, principale carburante della sua macchina bellica. Un ruolo che, visti i prezzi di favore, Cina e India hanno assunto volentieri.
Già prima dell'invasione dell'Ucraina, il potenziale del Mar Nero non era sfruttato appieno: i porti di questa regione, infatti, offrivano una capacità di circa 700 milioni di tonnellate che nel 2021 veniva utilizzata solo per il 22%. L'inizio della guerra ha causato una ulteriore contrazione di questo valore, sceso al 17%.
Ciò è accaduto per due ragioni. Da un lato, iI contesto di guerra ha reso particolarmente rischioso navigare nelle acque della regione (più di 100 mine sottomarine sono state rilevate nel Mar Nero di cui la maggior parte in prossimità di porti ucraini). Dall'altro, le sanzioni nei confronti della Russia hanno reso al Paese più complesso esportare tramite questo canale.
Se queste erano conseguenze preventivabili, di maggiore interesse è stato il comportamento di altri attori nella regione, in particolare Bulgaria e Romania. I porti di questi paesi hanno visto un aumento di port calls nel 2022 e nel 2023, che hanno poi cominciato a ridursi nel 2024. Ciò sembra suggerire una strategia precisa, che si articola sul breve e sul lungo periodo e può offrire un esempio della gestione di crisi geopolitiche inaspettate. Ovvero: inizialmente gli operatori hanno preferito spostare il traffico su altri porti della stessa regione, temporeggiando e osservando l'evoluzione della crisi. Una volta compreso che il conflitto non sarebbe stato di breve risoluzione, hanno deciso di spostarsi su corridoi alternativi.
Da non sottovalutare come tutto questo abbia influenzato negativamente l'integrazione dei porti della regione all'interno del sistema di scambi marittimi globali. Questo valore è catturato dall'indice LSCI (liner shipping connectivity index), che infatti restituisce la dinamica illustrata sopra: Russia e Ucraina hanno sofferto la contrazione maggiore (con la seconda ancora molto lontana dai livelli pre-2022), mentre gli altri sono cresciuti grazie anche alla diversione del traffico su altre vie commerciali più sicure.
Il Mar Nero non è l'unica regione in cui i traffici commerciali sono stati compromessi dal protrarsi di crisi geopolitiche: a quasi due anni dall'inizio degli attacchi da parte degli Houthi nella regione dello stretto di Bab el Mandeb, il traffico attraverso il Canale di Suez sembra essersi strutturalmente dimezzato. A poco sono servite le due missioni a guida europea e statunitense in termini di sicurezza, quantomeno percepita, nella regione.
Si tratta insomma di una crisi che non sembra avere una fine all'orizzonte, forse neppure adesso che le prospettive di una pace a Gaza sembrano farsi più concrete. E che ha costretto gli operatori a rivedere la loro struttura dei costi, messo a dura prova alcune infrastrutture portuali africane e la stessa industria navale, e assestato un grave colpo alle finanze egiziane (che dipendono dalle entrate del traffico da Suez).
I costi per assicurare un'imbarcazione sono infatti più che raddoppiati, passando da 0,3% a 0,7%-1% del valore del carico. In più, la tratta per il Capo di Buona Speranza costringe a fermarsi in porti come Durban o Città del Capo (tra i peggiori al mondo quanto a logistica, secondo il Container Port Performance Index), aumentando ulteriormente ritardi. Infine, i maggiori tempi di percorrenza riducono la disponibilità di navi cargo in porti nevralgici come Shanghai e Rotterdam, facendo lievitare i prezzi per i noleggi brevi.
A due anni dal suo lancio al G20 di Nuova Delhi, questa primavera sono stati avviati i primi progetti dell'India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC). Per quanto riguarda la componente ferroviaria, le risorse mancanti stimate restano consistenti, quantificabili in circa 5 miliardi dei 7,5 necessari per collegare i porti del Golfo a quello di Haifa, in Israele. Colmare questo gap permetterebbe di sfruttare un canale capace di spostare 46 treni al giorno, equivalenti a circa 1,5 milioni TEU annue o, in altri termini, il 4% di ciò che attraversava lo stretto di Suez prima della crisi degli Houthi. Una portata che potrebbe essere ancora raddoppiata grazie a investimenti mirati su ferrovie per treni merci a doppio impilamento, ulteriori ampliamenti del terminale di Haifa e un collegamento con il porto di Ashdod.
In termini economici, i vantaggi di IMEC sarebbero duplici: una riduzione dei costi di trasporto di circa il 30% e tempi di transito ridotti del 40% rispetto al Canale di Suez. Inoltre, tramite ampliamenti e potenziamenti, i porti della regione potrebbero intensificare ulteriormente i traffici tramite questo canale: alcune stime indicano che investimenti infrastrutturali nei porti limitrofi, come i già citati Haifa e Ashdod ma anche in quelli egiziani di Said e Damietta, porterebbero la capacità di IMEC fino a 6 milioni di TEU (il 17% dei transiti da Suez pre-crisi).
Il Canale di Suez è un collo di bottiglia ancora oggi fondamentale per i commerci globali e gli shock, siano essi casuali come il caso Ever Given o geopolitici come le azioni degli Houthi, si traducono in maggiori costi diretti e indiretti. Aumentare la ridondanza infrastrutturale nella regione fornirebbe un maggiore ventaglio di opzioni agli operatori nel fronteggiare le possibili crisi.
Quando Donald Trump ha annunciato che avrebbe aumentato i dazi anche verso l'UE, uno dei primi dubbi è stato proprio come l'UE avrebbe reagito. Una preoccupazione era che messi alle strette i paesi sarebbero andati a trattare in ordine sparso indebolendo la posizione negoziale dell'Unione e creando pericolose divergenze tra chi sarebbe riuscito ad accaparrarsi il favore del presidente americano e chi no.
Così non è stato, l'UE ha trattato con Trump unita ma questo non ha comunque evitato un accordo che sta già creando faglie all'interno dell'unione doganale. Nel 2024 tra il paese europeo con il dazio effettivo più alto (Grecia 2,8%) e più basso (Irlanda 0,2%) c'erano appena 2,5 punti percentuali. Questa differenza oggi si è sestuplicata: dopo il primo agosto il paese con il dazio effettivo più alto è diventata la Bulgaria (18,3%) mentre l'Irlanda è rimasta il paese con quello più basso (2,8%).
Questo ovviamente è legato a cosa si produce e cosa si esporta verso gli Stati Uniti in un determinato paese, e qui le esenzioni della Casa Bianca entrano in gioco creando forti differenze tra un'industria e l'altra. Se al momento i beni farmaceutici e chimici sono salvi (dazio effettivo al 2% incluse tutte le esenzioni) il settore automobilistico rischia di subire il colpo, sia in termini di margini che di posti di lavoro, nonostante la Commissione sia riuscita ad abbassare il dazio dal 25% al 15%. Per non parlare delle ultime minacce contro il settore agroalimentare italiano.