ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

11/11/2025 | Press release | Distributed by Public on 11/11/2025 03:04

Siria, un (ex) jihadista a Washington: cosa ci dice l’incontro fra Trump e Al-Sharaa

  • Commentary Medio Oriente e Nord Africa
    di Francesco Petronella
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Il termine "storico" è tra i più utilizzati in queste ore dai media arabi e internazionali per descrivere il faccia a faccia a Washington tra Donald Trump e il presidente siriano Ahmed Al-Sharaa. La definizione, una volta tanto, non è abusata, almeno per due motivi. Al-Sharaa - che durante la sua militanza jihadista aveva adottato il nome de guerre Abu Mohammed Al-Jolani - è stato effettivamente il primo Capo di Stato siriano a entrare nello Studio Ovale da quando il paese arabo ha ottenuto l'indipendenza dalla Francia nel 1946. Nei decenni successivi, fino ad oggi, le relazioni siro-americane sono state a dir poco altalenanti, se non ostili. Inoltre, il summit di Washington rappresenta un'indiscutibile e scenografica dimostrazione di realpolitik made in USA. A quasi un quarto di secolo dall'11 settembre 2001, infatti, un ex affiliato di Al-Qaeda viene accolto alla Casa Bianca con tutti gli onori, pur accedendo tramite un ingresso secondario a un incontro interdetto alla stampa, e completando un percorso di riabilitazione iniziato mesi fa e fortemente sostenuto da Trump. Sul tavolo numerosi dossier, soprattutto economici e di sicurezza: il contenimento dello Stato Islamico (presenza ancora concreta, sebbene latente), tramite l'annunciata adesione di Damasco alla coalizione anti-IS a guida americana; la completa rimozione delle sanzioni imposte alla Siria durante l'era di Bashar Al-Assad, di cui il dipartimento di Stato ha annunciato un'ulteriore sospensione di 180 giorni; e i burrascosi rapporti tra Siria e Israele, da cui dipende il più ampio riassetto regionale auspicato dall'amministrazione Trump.

Una storia di alti e bassi

L'incontro fra Trump e Al-Sharaa arriva dopo quasi 80 anni di relazioni siro-americane segnate da alti e bassi, dovuti all'epoca - come tutt'oggi - al difficile vicinato con Israele. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Siria cercava il riconoscimento internazionale e aderì alle Nazioni Unite come paese fondatore. Il presidente Shukri Al-Quwatli intendeva rafforzare i rapporti con Washington, ma il conflitto arabo-israeliano nel 1948 e l'appoggio americano a Israele posero presto un freno alla cooperazione. La Guerra Fredda fece della Siria un campo di competizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ma l'alleanza con l'Egitto di Gamal Abdel Nasser spinse decisamente Damasco nell'orbita di Mosca.

Con l'ascesa del partito Baath e di Hafez Al-Assad (1970), la Siria mantenne rapporti tesi con Washington, pur cercando un ruolo di interlocutore nel Medio Oriente. Risale al 1974 la visita (storica, ndr) del presidente americano Richard Nixon a Damasco per includere la Siria nel processo di pace post-guerra dello Yom Kippur: i risultati concreti furono scarsi. Dagli anni Novanta, sotto la presidenza di Bill Clinton, si aprì una fase di parziale disgelo: il presidente democratico visitò Damasco nel 1994 e incontrò Hafez in più occasioni per discutere una possibile pace con Israele (senza successo). Dopo il 2003, gli Stati Uniti accusarono la Siria di sostenere gruppi armati in Iraq e in Libano, imponendo sanzioni economiche, fino ad arrivare al momento più basso delle relazioni con e dopo la "Primavera araba" del 2011. Durante la guerra civile che ne seguì, Washington sostenne l'opposizione politica e militare, mentre il regime di Bashar Al-Assad, caduto a dicembre 2024, si affidò sempre più alla protezione russa e iraniana.

Contenere l'IS, il "nemico dimenticato"

L'incontro alla Casa Bianca di lunedì tra i due presidenti è stato presentato soprattutto in una cornice di cooperazione per la sicurezza. La Siria, infatti, ha dato la sua disponibilità a unirsi alla coalizione guidata dagli Stati Uniti per combattere lo Stato Islamico, che dal 2019 ha perso la sua dimensione territoriale ma è ancora presente nell'est della Siria in forma cellulare. Secondo le stime più attendibili sono circa 50mila i prigionieri dell'ISIS detenuti nei campi del nord-est siriano oggi nelle mani delle Forze democratiche siriane a guida curda (SDF), il maggiore dei quali è certamente Al-Hol (con 30-35mila detenuti stimati). In realtà si tratta in maggioranza di donne e bambini, cioè mogli e figli di ex combattenti jihadisti.

Questo stato di cose ha un potenziale esplosivo. I campi fungono da incubatori per l'estremismo, con cellule ISIS interne ai campi che reclutano tra i giovani attraverso la propaganda, sfruttando il malcontento per le condizioni di vita estremamente precarie. Per Al-Sharaa è una brutta gatta da pelare. Quando era il capo della branca siriana di Al-Qaeda, il leader arabo ha avuto un rapporto conflittuale con l'ISIS, culminato in una guerra aperta tra i due gruppi. Oggi, da presidente "moderato", ha adottato una posizione più pragmatica, anche perché - in cambio della rimozione delle sanzioni - la Casa Bianca ha chiesto a Damasco di "prevenire la rinascita dell'ISIS e assumere responsabilità per i centri di detenzione ISIS".

Sanzioni sì, sanzioni no?

Quello di lunedì è stato il terzo summit fra Trump e Al-Sharaa, dopo il primo faccia a faccia in Arabia Saudita a maggio scorso e un breve incontro a margine dell'Assemblea Generale dell'ONU a settembre. In entrambe le occasioni, Al-Sharaa e la sua delegazione hanno lavorato sodo per sbloccare il dossier più cruciale per il futuro dell'economia siriana: quello delle sanzioni. Già a maggio, dopo l'incontro a Riad, Trump aveva annunciato la revoca di tutte le misure. Tuttavia, le sanzioni più severe - note come Caesar Sanctions Act - richiedono l'abrogazione da parte del Congresso. L'amministrazione siriana sostiene con forza la loro cancellazione, tanto che Al-Sharaa ha colto l'occasione del suo nuovo viaggio negli USA per incontrare (e convincere) politici riluttanti come Brian Mast, deputato repubblicano della Florida. L'obiettivo, come dimostra anche l'incontro con la direttrice del Fondo monetario internazionale Kristalina Georgieva, è di far uscire la Siria da decenni di economia chiusa e dirigista e di stimolare gli investimenti internazionali in un Paese devastato da 14 anni di guerra. La sua ricostruzione, secondo le stime della Banca Mondiale, richiederà più di 200 miliardi di dollari (quella di Gaza circa 65, ndr).

Israele: piatto forte (e amaro)

Se è vero che le relazioni con Israele sono state al centro dei rapporti siro-americani fino ad oggi, la visita di Al-Sharaa a Washington non fa eccezioni, tanto che alla vigilia del vertice lo stesso Trump ha ammesso: "Penso che (Sharaa) stia facendo un ottimo lavoro. Il suo è un vicinato difficile". Dopo la caduta di Assad un anno fa, Israele ha più volte bombardato la Siria - compresa Damasco - e persino effettuato incursioni di terra nei governatorati limitrofi di Quneitra e Daraa. Le autorità di entrambi i paesi hanno confermato che sono in corso trattative, su spinta americana, per arrivare a un nuovo accordo sulla sicurezza. Preludio, forse, di una vera e propria normalizzazione. Per Israele, come ha chiarito lo stesso premier Benjamin Netanyahu, l'obiettivo è la smilitarizzazione della Siria sudoccidentale e, in seconda battuta, la messa in sicurezza della popolazione drusa.

Al-Sharaa, dal canto suo, ha fatto di tutto per abbassare i toni e propiziare questa distensione, pur definendo prematura l'ipotesi di una normalizzazione tout court. Trump, per parte sua, è stato chiaro sin da subito su un fatto: una Siria fuori dalla sfera di influenza iraniana è una buona notizia per gli Stati Uniti. Se Damasco riuscisse a trovare anche un modus vivendi, una forma di convivenza con Israele, allora andrebbe tutto secondo i desiderata di Washington. D'altronde la nuova amministrazione siriana ha spezzato di fatto il corridoio tramite il quale l'Iran rifornisce i suoi partner regionali, in primis il partito-milizia libanese Hezbollah, sequestrando nei mesi scorsi diversi carichi di armi e munizioni e facendo, volenti o nolenti, anche gli interessi di Israele. Si potrebbe arrivare a una forma di "pace armata" a cui gli USA contribuirebbero, secondo uno scoop di Reuters, con una nuova base aerea a Damasco, che farebbe da "deterrente definitivo" contro futuri attacchi israeliani in Siria. L'indiscrezione, smentita dal ministero degli Esteri siriano, segnala comunque il fatto che negoziati, di qualche tipo, sono certamente in corso.

Cosa aspettarsi?

La visita di quella di Al-Sharaa a Washington è di sicuro il coronamento di un anno di rebranding e pubbliche relazioni, culminato la scorsa settimana con la decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di rimuovere Al-Sharaa e il suo ministro degli Interni, Anas Khattab, dalla lista delle sanzioni per terrorismo, su iniziativa degli Stati Uniti. ma c'è un elemento fattuale da non sottovalutare: le minacce potenzialmente più gravi, ancora oggi, vengono dall'interno della Siria. Il governo di transizione ha puntato sin da subito sullo standing internazionale, con visite in Arabia Saudita, Turchia, Emirati, Qatar e incontri tra Al-Sharaa e grandi leader internazionali, a partire da Trump, ma all'interno il paese è ancora scosso da forze centrifughe. Gli alawiti, al centro di violenze settarie a marzo; i drusi, corteggiati da Israele per tentare di indebolire Damasco; i curdi, che rivendicano una qualche forma di autonomia come premio per il loro impegno contro l'ISIS. Ultimi, ma non ultimi, i "jihadisti di base", ossia i miliziani della vecchia guardia che hanno sostenuto Al-Sharaa nella sua scalata al potere. E che, a differenza delle cancellerie regionali e occidentali, non apprezzano affatto la sua "svolta moderata". Potrebbero tentare, nel medio-lungo termine, di minacciare il suo precario dominio.

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