09/25/2025 | News release | Archived content
Antonino Saetta e il figlio Stefano stanno tornando in macchina a casa a Palermo dopo aver partecipato al battesimo di un nipote a Canicattì. Sulla strada sulla quale due anni dopo sarà ucciso il giudice Livatino, la macchina del magistrato agrigentino viene affiancata da un gruppo di fuoco del clan dei corleonesi e fatta sbandare a bordo strada. Padre e figlio poi sono mortalmente colpiti da raffiche di armi automatiche.
Saetta, originario di Canicattì, dopo essersi laureato durante la Seconda guerra mondiale, entra in magistratura nel 1948 come Uditore giudiziario. Dopo una esperienza al tribunale di Acqui terme come giudice istruttore, dove conosce la moglie e nascono due dei suoi tre figli, torna in Sicilia al tribunale di Caltanissetta come giudice. Dal 1960 poi è in servizio al tribunale di Palermo, dove si occupa prevalentemente di processi civili. Dal 1969 al 1971 è Procuratore della repubblica di Sciacca, quindi dal 1976 al 1978 è Consigliere di Corte di appello di Genova, dove partecipa ad un processo a grande risonanza mediatica, come quello contro la colonna genovese delle Brigate rosse.
Il secondo ritorno in Sicilia nel 1985, lo compie come Presidente della Corte d'assise d'appello di Caltanissetta. In questa sede affronta per la prima volta un grande processo di mafia: quello per l'assassinio del collega Rocco Chinnici. La notorietà degli imputati allora incensurati, ma notoriamente potentissimi, non lo influenza: la sentenza inasprisce le pene inflitte rispetto a quelle del primo grado. Viene, infine, nominato Presidente della prima sezione della Corte d'assise d'appello di Palermo, dove presiede delicati processi come quello sull'uccisione del capitano Emanuele Basile. Proprio dopo aver depositato la sentenza di questo ultimo processo, avviene l'agguato mortale, il 25 settembre 1988.
Nel 1995 vengono riconosciuti colpevoli i vertici del clan dei corleonesi, come mandanti del primo omicidio di un magistrato giudicante.
"Sono proprio magistrati come Saetta che, con il loro impegno e la loro rettitudine, hanno contribuito - pagando anche con la vita - a fermare l'espansione dei clan mafiosi. A 36 anni di distanza dal vile agguato, in cui morì anche il figlio, continuiamo a ricordare il suo coraggioso esempio che, ancora oggi, deve stimolare la diffusione della cultura della legalità". Così il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio in occasione dell'ultima ricorrenza.
Alle 8.30 del 25 settembre 1979 il giudice Cesare Terranova e il maresciallo di P.S. Lenin Mancuso, che lo scorta nel tragitto casa-lavoro, sono in macchina. Imboccano una strada secondaria del centro di Palermo e la trovano sbarrata. Pochi secondi e i killer mafiosi aprono il fuoco, rendendo vani i tentativi di fuga del giudice alla guida. Terranova e Mancuso vengono uccisi, in quello stesso chilometro quadrato in cui cadranno per mano mafiosa anche Piersanti Mattarella, Boris Giuliano, Rocco Chinnici e Ninni Cassarà.
Cesare Terranova è figlio di un magistrato e ritornato dalla prigionia di guerra, entra in magistratura nel 1946: prima come pretore a Messina e a Rometta e poi giudice istruttore a Patti. Nel 1958 inizia la sua carriera come giudice istruttore al tribunale di Palermo. Da questa sede istruisce i primi grandi processi di mafia, che si concludono con pene minime e moltissime assoluzioni. Prima di diventare procuratore a Marsala nel 1971, ottiene la condanna in primo grado e in contumacia del boss di Corleone Luciano Leggio (conosciuto anche come Liggio) nel dicembre del 1970. Proprio per vendicare questa prima storica condanna, secondo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, i clan decidono il suo omicidio.
Nel 1972 ha inizio la carriera politica di Cesare Terranova, come deputato della Camera nel collegio delle Sicilia occidentale, che si conclude, dopo una rielezione nel 1976, nel 1979 con la fine anticipata della legislatura. Riveste la carica di segretario della Commissione antimafia ed insieme ad altri parlamentari presenta una relazione nel quale si evidenziano le collusioni di alcuni uomini politici con i clan mafiosi siciliani. Nel giugno del 1979, tre mesi prima dell'attentato mortale, Terranova fa ritorno in magistratura nella Corte d'appello di Palermo in attesa di essere nominato capo dell'Ufficio istruzione di Palermo.
Lo stesso giorno dell'omicidio viene conferita a Cesare Terranova la Medaglia d'oro al valor civile per essersi "sempre distintosi per particolare fermezza e alto rigore morale, esercitava con profondo impegno e incondizionata dedizione la propria missione, dimostrando assoluta fedeltà al compito di giudice imparziale, pur consapevole di esporsi a rischi mortali per il grande contributo dato alla giustizia nella lotta contro la criminalità organizzata".
Il boss Leggio, dall'inizio imputato come mandante dell'omicidio, viene assolto nel primo processo. Successivamente un "pentito" accusa tutti i componenti della cupola di Cosa nostra di aver ordinato l'omicidio del giudice. Ne segue un processo, che si chiude ancora con un proscioglimento. Nel 1997 a seguito di dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia, che indicano ancora in Luciano Leggio e nella cupola mafiosa i mandanti, si apre un nuovo processo, che si conclude questa volta con la condanna all'ergastolo per tutti gli imputati.