ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

10/29/2025 | Press release | Distributed by Public on 10/29/2025 09:23

Terre rare, la svolta “asiatica” di Trump

  • Commentary Asia · Geoeconomia · Relazioni Transatlantiche
    di Alberto Prina Cerai
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Il tour di Donald Trump nei paesi del sud-est asiatico, nella cornice dell'Asia Pacific Economic Cooperation (APEC), ha rappresentato la perfetta occasione per rispondere alla mossa di Pechino dello scorso 9 ottobre, quando il Ministero del Commercio cinese (MOFCOM) aveva deciso di imporre un ulteriore round di export control all'industria delle terre rare, dopo quelli di aprile. Nel corso di queste giornate, sono stati firmati accordi a vario titolo con Giappone, Australia, Malesia e Tailandia, nel tentativo di diversificare la dipendenza da Pechino sui minerali critici ma soprattutto sulle terre rare cinesi.

Nel braccio di ferro tra Washington e Pechino, assistiamo dunque a una presa di posizione forte - ciascuno con le sue 'armi' economiche, da una parte le tariffe commerciali e le restrizioni tecnologiche, dall'altra i controlli su minerali strategici - in vista dell'incontro tra il Presidente degli Stati Uniti e il leader cinese Xi Jinping previsto per domani, che potrà forse gettare le basi per una possibile de-escalation nell'ormai conclamata 'guerra' commerciale. A giugno, i leader statunitensi avevano dichiarato che la Cina aveva acconsentito ad allentare le restrizioni sui magneti esportati negli USA per utilizzi non legati alla difesa. Tuttavia, alcune aziende americane sostengono che da allora sia diventato più difficile acquistare magneti di terre rare, con le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti in calo del 29% a settembre rispetto al mese precedente. Si tratta di un evidente riflesso della burocratizzazione, considerando che il MOFCOM, in collaborazione con la dogana cinese, deve presidiare centinaia di milioni di magneti esportati in tutto il mondo per implementare le restrizioni di aprile.

Un contesto di confronto tecnologico

Tuttavia, ci sono due premesse che vanno esplicitate per evitare di intendere questi accordi come una mera reazione e/o posizionamento commerciale e non come una più strutturale forma di de-risking industriale da Pechino.

Innanzitutto, l'offensiva cinese di aprile e ottobre sulle restrizioni di terre rare ha dato ancor più vigore e spinta al tentativo occidentale - più o meno coordinato tra Stati Uniti e Unione Europea, considerando interessi industriali non così convergenti - di disaccoppiare il prima possibile l'industria dalla Cina. Questo è un trend svincolato dal tit-for-tat della disputa commerciale più ampia tra i due paesi: si tratta di un tentativo complesso, in corso anche in altri settori, di ricostruire un'industria mine-to-magnet dopo oltre trent'anni di offshoring non solo di asset industriali (dalle miniere agli impianti di separazione), ma anche di competenze tecniche specifiche. Perché le terre rare, nelle loro varie forme e composti chimici, sono essenziali per numerosi settori industriali convenzionali ma soprattutto per quelli più avanzati legati alla transizione energetica, alla robotica, alla difesa e ai data center. Settori dove interessi industriali e geopolitici tendono a convergere.

In secondo luogo, vi è da considerare il fatto che la Cina ha in cantiere questa tipologia di restrizioni - nella cornice dei controlli per sistemi duali (civili-militari) - da più di cinque anni, nell'ottica di preservare e regolamentare in parte l'industria domestica per le esigenze del paese, di colpire in maniera chirurgica i settori più sensibili degli Stati Uniti in primo luogo (l'apparato militare) e di scongiurare un possibile - ma complesso - svincolamento dal suo monopolio e controllo tecno-industriale. Quindi, non ci si potrà aspettare un cambio di rotta significativo nell'approccio geoeconomico cinese.

Chiariti questi due aspetti, gli Stati Uniti hanno fatto ricorso a una serie di accordi specifici con alcuni paesi asiatici che, da una parte, hanno tutto l'interesse a rientrare in un orbita commerciale con Washington con accordi quadro, ma dall'altra potrebbero offrire opportunità concrete di diversificazione (tramite investimenti, offtake agreements e meccanismi di finanziamento congiunto) nella filiera delle terre rare, laddove possibile, e facendo "massa critica" per creare un mercato per i prodotti midstream-downstream alternativo alla Cina. Questi accordi bilaterali, oltre l'aspetto simbolico che riguarda il tour geopolitico di Trump all'APEC, hanno sicuramente l'effetto benefico di dare fiducia ad una schiera di stakeholders - dagli investitori alle aziende private - affinché rimangano in essere incentivi e un contesto favorevole all'emergere di una (costosa) filiera alternativa a Pechino, anche qualora i due attori dovessero trovare un accordo e le tensioni rientrare, nella migliore delle ipotesi. L'ordine che segue non è casuale e riflette il posizionamento dei paesi a seconda del grado di "maturità" nell'industria delle terre rare.

L'accordo con il Giappone per integrare la filiera

Il Giappone è certamente il paese che più di tutti ha dimostrato che la diversificazione dalla Cina è possibile, se costruita sulle esigenze industriali effettive. Due sono gli aspetti fondamentali: ad oggi, è il secondo produttore di magneti permanenti di terre rare (NdFeB) dopo la Cina, seppur con una quota molto inferiore e con gran parte del suo output industriale legato ai consumi interni. Tra le aziende chiave figurano Shin-Etsu e Hitachi (soprattutto la divisione dedicata al business dei magneti, Proterial), con quest'ultima che ha in mano essenziali brevetti industriali. In secondo luogo, a partire dalla crisi delle terre rare del 2010, Tokyo ha messo in campo una strategia efficace che ha avuto nell'investimento strategico dell'agenzia a controllo governativo JOGMEC nell'azienda mineraria australiana Lynas Corporation la sua punta di diamante (e il nesso con la Malesia). In ambito bilaterale, il 28 marzo 2023 era stato firmato l'accordo quadro con gli USA sulla cooperazione nel settore dei minerali critici che aveva avuto il risultato di "inquadrare" il Giappone come paese funzionalmente compatibile e preferenziale con lo schema dei sussidi dell'Inflation Reduction Act (IRA). Ad oggi, a seguito della revisione di Trump dell'IRA, il paese rimane comunque un partner essenziale nell'agenda di de-risking e l'accordo framework siglato lunedì lo conferma. Sono tre gli aspetti chiave e che riguardano direttamente il confronto con le industrie cinesi: 1) colmare "i gap esistenti nella filiera", con speciale riguardo a magneti permanenti e batterie, con investimenti targettizzati; "supportare finanziariamente progetti specifici" per compratori americani e giapponesi (la massa critica cui si faceva riferimento e aspetto essenziale per coniugare sforzi sulla diversificazione dell'offerta e garanzie sulla domanda industriale); 3) l'impegno ad affrontare "politiche non di mercato e pratiche commerciali sleali". Su questo gli USA sono già intervenuti internamente prevedendo meccanismi di price-floor come scudo di alcune aziende domestiche (MP Materials) che devono affrontare le pratiche concorrenziali delle società cinesi che, considerando il monopolio industriale, dettano i prezzi di mercato. Resta da capire come potrà essere implementato con i partner giapponesi. Altre voci come stockpiling, mappatura geologica e cooperazione con altri attori rientrano nell'ordinario. Le parti si riaggiorneranno entro 180 giorni dalla firma dell'accordo con un incontro ministeriale per identificare "priorità e approcci" per il raggiungimento degli obiettivi fissati.

La partnership "speciale" con l'Australia

L'Australia è sicuramente il partner che sul piano minerario è il più maturo per poter concretizzare nel medio-lungo periodo la strategia di diversificazione dalla Cina, non solo sulle terre rare ma anche su altri minerali critici. In qualità di paese strutturalmente esportatore di commodity (con una sovraesposizione sulla Cina, principale paese destinatario della bauxite e litio estratti in loco) e in assenza di una base industriale consistente, l'Australia gioca una partita upstream, seppur vi siano tentativi di localizzare maggiormente le attività più lucrative di raffinazione. Nel caso delle terre rare, tuttavia, questi sforzi sono stati complessi, considerando le difficoltà a conciliare permessi e standard ambientali con gli impianti di concentrazione che sono stati outsourced in Malesia, dove risiede l'unico impianto attualmente operativo. È qui, infatti, che Lynas Corporation è riuscita a produrre per la prima volta a livello commerciale fuori dalla Cina quantità minime di ossidi di disprosio, composto di terre rare essenziale per i magneti ad alte performance. Tuttavia, senza capacità di "metallizzazione" rimane un prodotto che, al momento, non ha acquirenti diretti in Occidente. La firma di un MoU con l'azienda americana Noveon Magnetics - l'unica società che si dichiara attiva nella produzione di magneti negli USA - rappresenta una possibile apertura, ma rimane il nodo delle leghe metalliche. Qui entrerà in gioco la capacità di integrare la filiera orizzontalmente nell'orbita dell'AUKUS e della Mineral Security Partnership (MSP).

In generale, l'accordo United States-Australia Framework for Securing of Supply in the Mining and Processing of Critical Minerals and Rare Earths (firmato lo scorso 20 ottobre 2025) in questa direzione detta una cooperazione rafforzata fra i due paesi per garantire e diversificare le catene di approvvigionamento. Entrambi i Paesi si sono impegnati ad almeno 1 miliardo di dollari ciascuno per progetti prioritari nei prossimi sei mesi, con una pipeline complessiva stimata fino a circa 8,5 miliardi di dollari. Sarà istituito un Critical Minerals Supply Security Response Group congiunto, guidato dai Ministri competenti USA e Australia, per identificare vulnerabilità, definire priorità e accelerare l'avvio di attività di estrazione, separazione, lavorazione e riciclo. Sicuramente il potenziale è notevole: ad oggi, 11 dei 34 progetti minerari sulle terre rare a livello mondiale, fuori dalla Cina, sono localizzati in Australia, di cui l'unico operativo a Mountain Weld (operato come detto da Lynas Corporation), mentre gli altri sono in fasi di avanzamento differenti, tra studi di fattibilità tecnica ed esplorazione preliminare dei giacimenti. Oltre 60 milioni di dollari in vestimenti di esplorazione sono infatti fluiti in Australia, paese che presenta tre grandi asset che in questo momento fanno gola a tutti i paesi interessati a una maggiore diversificazione: ricchezza geologica, un mercato dei capitali nel settore molto avanzato e competenze minerarie di livello mondiale.

L'eccezione USA della Malesia e l'avvicinamento con la Tailandia

E qui veniamo ai due Memorandum of Understanding siglati rispettivamente con Malesia e Tailandia, che certificano una prima fase di consultazioni con gli Stati Uniti per l'ingresso in quella che potrebbe emergere come un network industriale con al centro Washington. Partiamo da alcune, importanti premesse. All'inizio del 2025 la Malesia - seguendo l'esempio di altri paesi interessati ad evitare flussi predatori delle proprie risorse strategiche, senza valorizzarle adeguatamente per le industrie e comunità locali - aveva vietato l'esportazione di prodotti a base di terre rare non separate. Con un'unica, importante eccezione: Lynas Malaysia Sdn. Bhd., sussidiaria dell'omonima australiana che gestisce il l'impianto Lynas Advanced Materials Plant (LAMP) a Gebeng, l'unico attivo nella separazione di terre rare pesanti (HREE). L'entità, infatti, è legalmente autorizzata dalle autorità malesiane per esportare il carbonato misto di terre rare in Cina (per il momento, unico mercato di sbocco). Tuttavia, considerando la spinta degli USA a diversificare e ricreare una filiera integrata la società madre ha annunciato, tramite il suo CEO Amanda Lacaze, l'espansione delle attività nel sito malesiano per aumentare la raffinazione di HREE come disprosio (Dy) e terbio (Tb), due dei 12 elementi in presidio del MOFCOM, citando l'aumento della domanda ex-Cina per magneti ad alte performance in settori cruciali quali robotica, difesa e settori high-tech. Questo annuncio, che segue di poche ore il MoU, rappresenta un chiaro segnale di come la verticalizzazione delle attività di Lynas sia allineata con gli interessi del governo malesiano su pressione statunitense, nonostante l'azionista giapponese (attraverso JOGMEC) rimanga il destinatario prediletto per l'aumento dell'espansione delle attività produttive della miniera a Mt. Weld. Il Memorandum, infatti, presenta un testo piuttosto generico, che funge solo da cornice di governance. Seguendo le linee guida dell'azienda australiana, ipotizzando nessuna perdita e riserve di qualità media a pieno regime dal sito di Mt. Weld, la produzione di DyTb potrebbe essere di circa 150 tonnellate annue, sufficienti a coprire la domanda ex-China (però ai consumi del 2025, non considerando le stime al rialzo nei prossimi anni qualora un'effettiva capacità di magneti dovesse concretizzarsi tra USA, Giappone e anche UE).

Se dal punto di vista operativo la Malesia è già un attore centrale in via indiretta (Lynas rimane una società straniera che opera senza mandati o joint venture con entità locali), la Tailandia si inserisce in questo puzzle industriale in maniera decisamente più marginale. Stati Uniti e Tailandia si impegnano a cooperare per diversificare le catene globali di fornitura dei minerali critici e delle terre rare, dando priorità all'intera filiera: esplorazione, estrazione, trasformazione, uso finale, recupero e riciclo. Il documento mira a consolidare un mercato più sicuro, liquido ed "equo" per questi materiali, promuovendo investimenti tra imprese thailandesi e statunitensi oltre al trasferimento tecnologico. Pur essendo un'intesa politica, l'accordo non è legalmente vincolante e lascia ampi margini di manovra.

Conclusioni

La "diplomazia mineraria" di Donald Trump consolida partnership industriali e una rete di accordi che già stava emergendo negli scorsi anni in risposta alle minacce cinesi - poi concretizzatesi - di una possibile weaponization da parte della Cina sulle terre rare e su altri minerali critici. Il contesto dell'APEC e l'avvicinamento all'incontro con Xi Jinping hanno sicuramente fornito agli USA la possibilità di presentarsi al tavolo da una posizione meno debole - il dialogo con i partner asiatici veicola l'idea che Washington è attiva nel creare un network geopolitico alternativo a Pechino - ma è altresì vero che, sul piano industriale e nello specifico sulle terre rare, in questo momento la posizione di forza rimane saldamente nelle mani di Pechino. La supply chain fuori dalla Cina è troppo poco matura, mentre la domanda downstream è ancora molto parcellizzata e di nicchia negli USA così come in Europa. In tutto questo, la prospettiva che un accordo commerciale e un rilassamento (improbabile per gli export control del 4 aprile) possa indurre i consumatori occidentali della prospettiva di un ritorno al business-as-usual resta un'illusione: le terre rare sono l'esempio più evidente di come si debba navigare in un'era di competizione geoeconomica "here to stay".

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