12/04/2025 | Press release | Distributed by Public on 12/04/2025 09:14
Negli ultimi anni in Asia orientale e meridionale si sono sviluppati ampi e diffusi movimenti di protesta spesso caratterizzati da alcuni tratti ricorrenti e da un forte protagonismo della Generazione Z, nata tra il 1997 e il 2012. Questo protagonismo di una nuova gioventù "digitale", già evidente prima della pandemia Covid19 - che, anziché frenarlo, lo ha semmai rafforzato dopo un'iniziale battuta d'arresto - ha ripreso vigore appena le piazze, a lungo negate dall'emergenza sanitaria, si sono rese nuovamente disponibili. Nel subcontinente indiano, solo negli ultimi tre anni, altrettanti governi sono caduti in seguito a proteste di piazza che chiedevano un cambiamento radicale e che, come sottolinea un'analisi di Le Monde, condividevano una causa comune: «la frustrazione per la corruzione dei politici e i privilegi autoconcessi». Sono bastati solo cinque mesi all'Aragalaya, parola singalese che significa "lotta" e indica il vasto movimento di protesta che ha scosso lo Sri Lanka nel 2022, per rovesciare la dinastia famigliare dei Rajapaksa che aveva governato il paese per decenni. Ne sono bastati sei agli studenti del Bangladesh nel 2024 per costringere la premier Shaikh Hasina - al potere da 15 anni - a rifugiarsi in India; e solo due giorni ai giovani nepalesi, lo scorso settembre, per rovesciare l'esecutivo del Primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli.
Accanto al denominatore comune della frustrazione e dell'ostilità verso le élite al potere, emergono almeno altri due fattori ricorrenti nei tre casi emblematici dell' Asia meridionale: da un lato, un ricorso alla violenza, che ha portato all'occupazione dei palazzi del potere e delle residenze private delle élite; dall'altro, la mancanza di organizzazioni strutturate - particolarmente evidente in Nepal - benché gli studenti bangladesi abbiano cercato di crearne una e Aragalaya abbia favorito la rinascita e il rafforzamento di un'organizzazione politica che ha rapidamente espresso una leadership, incarnata nel 2024 dal presidente Anura Kumara Dissanayake, il quale ha saputo dare una svolta significativa a un Paese che nel 2022 aveva dichiarato default.
Effettivamente - come ricordano Joshua Kurlantzick e Annabel Richter sulla World Politics Review - il movimento di protesta nello Sri Lanka «ha portato a un cambiamento radicale alle urne… La scelta del partito National People's Power, un partito di sinistra che aveva guadagnato poca popolarità in precedenza - Dissanayake ottenne circa il 3% dei voti alle elezioni presidenziali del 2019 - fu un chiaro rimprovero all'establishment politico del Paese, compresi i Rajapaksa. Poco dopo, l'NPP ottenne una schiacciante maggioranza anche in Parlamento… le elezioni e i suoi progressi verso un profondo cambiamento politico hanno già differenziato i risultati delle proteste dello Sri Lanka da quelli di altri Stati. Il NPP ha portato avanti, gradualmente, la sua promessa fondamentale di modificare la Costituzione per ridurre il potere presidenziale, decentrare il potere e migliorare la partecipazione politica. I manifestanti della Generazione Z che oggi si stanno sollevando in tutta l'Asia potrebbero imparare molto da questo esempio». Dunque, c'è una prima differenza anche nel contesto dell'Asia meridionale, dove l'elemento comune iniziale - la rabbia contro le élite, proteste autorganizzate dal basso, partecipazione giovanile, violenza - si stempera nella capacità o meno di produrre un cambiamento che nasce da contesti violenti. In proposito, i due ricercatori citano la politologa Erica Chenoweth, che nel 2021 ha pubblicato un saggio sul movimento pacifista. La studiosa sostiene che, negli ultimi anni, proteste, scioperi e manifestazioni su larga scala, hanno avuto meno successo nel promuovere il cambiamento rispetto ai movimenti nonviolenti del passato. «Dagli anni '60 fino al 2010 circa, i tassi di successo delle campagne rivoluzionarie nonviolente sono superiori al 40% (mentre) dal 2010, meno del 34% delle rivoluzioni nonviolente e solo l'8% di quelle violente hanno avuto successo».
Risulta difficile mettere a confronto casi, movimenti e proteste tanto diversi per contesto, storia politica dei singoli Paesi e conseguenze sul cambiamento. In India e in Pakistan sono emersi negli ultimi anni movimenti di protesta estesi: dal sostegno al premier Imran Khan, estromesso dal parlamento in Pakistan, alle mobilitazioni in India a difesa della comunità musulmana, per non parlare della questione kashmira, comune ai due Stati. Ma sia India che il Pakistan mostrano caratteristiche molto diverse rispetto a Sri Lanka, Bangladesh e Nepal, a partire dal maggiore o minore protagonismo della Generazione Z. In India e Pakistan, infatti, le proteste hanno assunto forme più tradizionali e istituzionali, con la presenza di partiti politici storici, e non sembra che le pur ampie manifestazioni di massa dei due Paesi abbiano in alcun modo influenzato le realtà degli altri tre Paesi dell'Asia meridionale. C'è persino chi, osservando le proteste giovanili asiatiche, ha ipotizzato un possibile parallelismo con le cosiddette primavere arabe dell'Asia occidentale e del Nord Africa. Ma forse è ancora presto per dare giudizi definitivi.
Diventa forse meno complesso individuare un denominatore comune nel quadrante più a Est, quello del Sudest asiatico, in particolar modo in Thailandia e in Indonesia. In questi paesi, infatti, le caratteristiche comuni non si limitano a un'indignazione di fondo, a proteste prevalentemente pacifiche e al fenomeno digitale, cioè alla capacità di mobilitazione attraverso social network e cellulari. La protesta degli studenti in Thailandia - che ha molto raramente assunto forme violente da parte dei manifestanti - non solo ha coinvolto sempre più vasti strati di popolazione, ma ha sin da subito delineato un programma politico condiviso: limitare il potere della Casa reale, riformare la Costituzione, cambiare le regole elettorali. Anche in Indonesia, nonostante ci siano stati casi di violenza sporadica, come l'incendio degli uffici dei governatorati nel mese di agosto dove sono bruciate vive alcune delle persone al loro interno, il movimento di protesta è tradizionalmente legato ad agende politiche ben definite. Per stare alle manifestazioni dell'estate scorsa, la protesta innescata dai nuovi privilegi che il governo voleva regalare ai parlamentari si è subito saldata a quella per l'aumento del salario minimo. In entrambi i casi - da Bangkok a Giacarta - la protesta non è stata semplicemente autorganizzata dal basso ma si è fondata su un programma politico esteso ed elaborato, nel quale erano (e sono) presenti organizzazioni strutturate e temi come l'eguaglianza di genere, la censura o la coscienza ambientalista. Infine, i movimenti del Sudest hanno mostrato anche un tentativo di internazionalizzare le proprie rivendicazioni, sostenendo per esempio quelle di Hong Kong, come ha dimostrato l'esperienza della Milk Tea Alliance: un movimento online di solidarietà nato nel 2020 grazie ai netizen di Hong Kong, Taiwan, Thailandia, Corea del Sud e Myanmar. Va inoltre segnalata una capacità di mobilitazione su scala nazionale con proteste di piazza che, in Indonesia e Thailandia, hanno visto partecipare non solo le capitali, ma anche altre città.
Se si volesse tracciare dunque un profilo delle proteste asiatiche di questi ultimi anni, si potrebbe - pur con tutti i distinguo - definire quelle del Sudest più "politicamente mature" rispetto a quelle dell'Asia del Sud e marcate da un ricorso alla violenza solo sporadico e mai arrivato agli eccessi visti in Nepal, Bangladesh o Sri Lanka. Questo senza ignorare l'elemento delle presunte "provocazioni", più volte denunciato da esponenti dei movimenti - dal Nepal all'Indonesia - che hanno attribuito alcuni episodi a infiltrazioni esterne. Quel che inoltre bisogna chiedersi è a quali sostanziali cambiamenti ha portato la protesta. Lo Sri Lanka ha dimostrato che un movimento dal basso, con un orientamento violento e massimalista, può però anche trasformarsi in svolta istituzionale pacifica.
Il panorama non si esaurisce qui: il caso delle Filippine presenta una peculiarità, con grandi proteste di massa che hanno registrato numeri impressionanti soprattutto a Manila, ma in cui lascia perplessi il ruolo di leadership assunto in molti casi dalla Iglesia ni Cristo. Si tratta di una chiesa cristiana non trinitaria con una postura autoritaria, esclusivista e rigida, tanto da definirsi erede della chiesa originaria fondata da Gesù e giudica apostate tutte le altre espressioni ecclesiastiche cristiane. La manipolazione politica delle proteste, all'interno della lotta tra il presidente Ferdinand "Bongbong" Marcos Jr. e la vicepresidente Sara Duterte, ex alleati ora in aperto contrasto, sembra inoltre aver fatto più strada nelle Filippine che in altri contesti. Altrove, infatti, l'élite ha scelto semmai la via di una durissima repressione della piazza, come in Indonesia, o quella giudiziaria - con arresti e condanne pesanti - come in Thailandia.
Fa infine caso a parte anche il Myanmar. La Birmania, - o Burma, come l'opposizione alla giunta preferisce chiamare il Paese - aveva visto, subito dopo il golpe del 2021, un vasto movimento di protesta pacifico quanto diffuso, dalla capitale al singolo villaggio. Un movimento senza precedenti per estensione e partecipazione, che si è poi trasformato in lotta armata quando è apparso chiaro che i militari golpisti del Tatmadaw non avrebbero tollerato ingerenze civili.
In questo panorama, molto più disomogeneo di quanto non suggeriscano gli elementi comuni, la Thailandia sembra il caso più interessante da osservare. La vitalità del movimento giovanile non è solo riuscita a risvegliare la coscienza politica di vasti strati della popolazione - soprattutto urbana - ma ha anche saputo trasformare la protesta in proposta politica istituzionale, in modo simile a quanto avvenuto in Sri Lanka. Tale spinta è stata raccolta da diversi partiti (in realtà sempre il medesimo ma obbligato a rifondarsi per far fronte agli scioglimenti imposti dalla Corte costituzionale) che, salvo nuovi colpi di scena o ulteriori scioglimenti), potrebbero fare dell'attuale Partito del popolo (già Future Forward e in seguito Move Forward) il protagonista di una possibile svolta alle elezioni nel 2026.