12/04/2025 | Press release | Distributed by Public on 12/04/2025 07:34
Ricevuto l'agosto scorso ad Anchorage sul tappeto rosso, nonostante il suo rifiuto di accettare il cessate il fuoco con l'Ucraina, e accolto trionfalmente subito dopo a Pechino dal Sud Globale, Putin ha deciso di completare sul terreno il suo piano di assoggettamento dell'Ucraina scatenando una violenta offensiva sul fronte del Donbass e sottoponendo a una brutale e ininterrotta opera di devastazione con missili e droni le infrastrutture e le città del martoriato Paese. Pur con qualche arretramento, l'Ucraina sta resistendo stoicamente al soverchiante attacco russo su quella che rappresenta la sua "linea del Piave", sfondata la quale le sarebbe più difficile contenere l'avanzata del nemico nel suo territorio. Ma l'emergere degli ultimi casi di corruzione ha inciso pesantemente sull'indice di gradimento del presidente Volodymyr Zelensky e la fuga dagli obblighi militari rende sempre più difficile il reintegro delle forze impegnate al fronte. Per aiutare l'Ucraina a resistere senza intervenire direttamente, gli alleati dovrebbero rafforzare la sua capacità di difesa antiaerea e di ritorsione sulle infrastrutture russe, in modo da indurre Putin a un cessate il fuoco immediato sulle posizioni attuali che consenta di porre fine al massacro e di iniziare una seria trattativa tra le parti coinvolte senza il rombo dei cannoni.
Tuttavia, invece dei Tomahawk, giovedì 20 novembre Washington ha inviato a Kiev un piano articolato in 28 punti che recepisce tutte le richieste russe ignorando le esigenze ucraine, da accettare entro giovedì 27 pena l'immediata sospensione di tutte le forniture e dell'intelligence operativa. Il piano, redatto dall'immobiliarista americano Steve Witkoff e dall'economista/finanziere russo Kirill Dmitriev, prevede, in particolare: la cessione alla Russia dell'intero Donbass (comprese le aree fortificate tuttora controllate dall'Ucraina) e delle aree occupate delle province di Kherson e Zaporizhzhia; il riconoscimento della annessione della Crimea; il dimezzamento e il disarmo dalle armi pesanti dell'esercito ucraino e la sua rinuncia a dotarsi di armi nucleari; l'esclusione dell'adesione alla Nato a fronte di vaghe garanzie di sicurezza con generico richiamo all'art.5 del Trattato; l'impegno a indire le elezioni entro 100 giorni; la cessione alla Russia della metà della produzione elettrica della centrale di Zaporizhzhia.
Alla Russia, inoltre, con disposizione formalmente rivolta a tutte le parti, vengono offerte un'amnistia generale per tutti i crimini di guerra, di cui beneficia in particolare Putin, ricercato dal Tribunale Penale Internazionale, e la garanzia che non riceverà alcuna richiesta di risarcimento né futura denuncia. Alla ricostruzione del paese contribuiranno progetti di ricostruzione e sviluppo finanziati con 100 miliardi di dollari provenienti dai beni russi congelati più 100 miliardi di dollari forniti dall'Europa, che saranno diretti dagli USA, ai quali sarà riservato il 50% dei profitti. Il resto dei fondi russi sarà conferito a un veicolo di investimento americano-russo. Gli USA, quindi, non solo non prevedono di contribuire ai costi della ricostruzione, ma intendono farne una occasione di profitto. Pretendono, inoltre, che l'esecuzione dell'accordo sia controllata, con il supporto di un gruppo di lavoro congiunto americano-russo, da un Consiglio di pace presieduto dallo stesso Trump.
Infine, il piano prevede: l'apertura di un dialogo tra Russia e NATO, mediato dagli USA, per risolvere le questioni di sicurezza e avviare la de-escalation; la definizione di un accordo globale di non aggressione tra Russia, Ucraina ed Europa (con reciproco impegno della Russia a non invadere i Paesi vicini e della NATO a non espandersi ulteriormente); il reinserimento della Russia nell'economia mondiale con la revoca delle sanzioni e la sua reintegrazione nel G8. In un diverso contesto - in alternativa, non in aggiunta alle pretese sopra riportate - queste ultime proposte avrebbero potuto costituire una buona base per avviare una seria trattativa orientata a una pace giusta e duratura. Ma aggiunte al resto perdono credibilità e non possono modificare il giudizio sulla proposta.
Con le amputazioni territoriali e i vincoli imposti alle forze armate e alle infrastrutture, il piano priva l'Ucraina della sostenibilità economica, ne aggrava lo squilibrio finanziario, indebolisce fortemente le sue possibilità di difesa, rende problematico il suo inserimento nell'UE, formalmente accettato dalla Russia ma di fatto contrastato con le condizioni imposte, anche a tal fine, all'Ucraina. Se accettato com'è, il piano sancirebbe la fine dell'indipendenza dell'Ucraina e il suo assoggettamento alla Russia, grazie anche alla sostituzione di Zelensky con un presidente fedele a Putin, a cui mira la richiesta di elezioni immediate per sfruttare l'emergenza attuale. Con la complicità di Trump e nell'impotenza dell'Europa, Putin raggiungerebbe l'obiettivo della sua aggressione costringendo alla resa l'Ucraina. Sarebbe la vittoria dell'aggressore sull'aggredito, della forza sul diritto. Un prezzo alto per una pace ingiusta e incerta.
Zelensky si è rivolto schiettamente al Paese con un drammatico messaggio di tre minuti che ricorda il Churchill dei tempi bui: "Dobbiamo scegliere se perdere la dignità o il nostro alleato chiave", ha detto sostanzialmente, aggiungendo che avrebbe fatto il possibile per cercare di ottenere con i negoziati un compromesso tra i due obiettivi senza tradire mai il suo Paese. L'Europa si è attivata immediatamente per sostenerlo su questa linea. I leadereuropei partecipanti al G20 di Johannesburg si sono riuniti sul posto per elaborare un documento di osservazioni e controproposte ai singoli punti del piano, subito inviato a Trump che, di fronte all'indignazione manifestata da molti esponenti dall'opinione pubblica professionale e responsabile, anche americana e repubblicana, ha smussato i toni dichiarando che il documento non era definitivo ma aperto alla discussione con flessibilità nella scadenza. Domenica 23 i delegati di Stati Uniti, Ucraina ed Europa si sono incontrati a Ginevra per iniziare una discussione partendo dal piano dei 28 punti, quindi tutta in salita per gli ucraini e i loro sostenitori europei, i quali hanno accettato, nell'ambito di una riformulazione del piano in 19 punti, l'annessione di fatto (ma non di diritto) alla Russia dei territori occupati (ma non della parte di Donetsk tuttora controllata da Kiev) e la limitazione di sovranità imposta all'Ucraina con i vincoli alle forze armate e alla adesione alla NATO nonché all'obbligo di elezioni immediate, chiedendone peraltro parziali modifiche (aumento da 600 a 800 mila uomini del limite -solo in tempo di pace- per le forze armate, più precise garanzie di sicurezza sostitutive della NATO e flessibilità per la data delle elezioni).
Sono condizioni che restano comunque fortemente penalizzanti e umilianti. L'Ucraina si arrende alla sopraffazione e riconosce la perdita della parte strategicamente più rilevante del suo territorio. Paese aggredito in dispregio del diritto internazionale e degli impegni precedentemente assunti dall'aggressore (trattato di Budapest del 1994), deve limitare (l'aggredito e non l'aggressore) la capacità di difesa del suo esercito e la possibilità di adesione ad alleanze difensive, subendo cruciali interferenze nel governo del Paese. Eppure, Putin ha già dichiarato che non gli basta, vuole anche il Donetsk tuttora presidiato dall'Ucraina, e che due anni di continui attacchi russi non sono riusciti ad espugnare, e pretende che l'annessione non sia solo di fatto ma anche formale. Altrimenti non sospenderà l'aggressione, ma la continuerà fino al conseguimento del suo obiettivo con la forza. Con tali propositi ha incontrato martedì 2 dicembre Witkoff e Jared Kushner, genero di Trump, andati a Mosca per riferirgli l'esito dei colloqui avuti nei giorni precedenti a Miami insieme a Rubio con la delegazione ucraina guidata dall'ex ministro della difesa Umerov, subentrato ad Andrij Yermak dimessosi per l'inchiesta anticorruzione, mentre Zelensky incontrava a Parigi Macron e altri leadereuropei. L'incontro (5 ore) si è concluso con un nulla di fatto, dato il rifiuto di Putin di prendere in considerazione le modifiche concordate a Ginevra con la riformulazione del piano in 19 punti a parziale recepimento delle richieste dell'Ucraina e dell'Europa, alla quale Putin ha rivolto un violento attacco dichiarando che, se vuole la guerra, la Russia è pronta. Poiché invece l'Europa pronta non è, né ha mai manifestato tale intenzione, a minacciare la guerra è solo Putin.
Il negoziato è a un punto critico. La posta in gioco è se l'Ucraina riuscirà o meno a conservare un livello di indipendenza, sovranità e risorse che le consenta l'inserimento nell'Unione Europea. Il che dipende, in particolare, dalla capacità di conservare almeno le sue postazioni di difesa nel Donetsk e a Zaporizhzhia, di non subire limitazioni incisive alle sue forze armate, da cui dipende principalmente insieme all'adesione alla UE la sua sicurezza (più che da incerte e inaffidabili - visti i precedenti - garanzie internazionali) e di non essere ulteriormente privata, in particolare da avidi alleati, delle sue residue risorse.
Nonostante l'ottimismo che si era diffuso all'indomani dell'incontro di Ginevra, quella che dovrebbe essere la fase conclusiva del negoziato non si è certo aperta sotto i migliori auspici. Il disimpegno dalla difesa ucraina minacciato da Trump a favore della Russia e le incertezze sulla effettiva capacità e volontà degli Stati europei, chi più chi meno, di sostituirsi agli USA in questo ruolo rendono strettissimi i margini per assicurare all'Ucraina le pur minime condizioni richieste, come sopra richiamate, per poter restare Stato effettivamente (e non solo a parole) indipendente e sovrano.
Se Putin non arretra dalle sue richieste intese all'assoggettamento dell'Ucraina confermate a Witkoff martedì e se Trump ritorna ai 28 punti che lo assecondano, cosa farà l'Europa? Continuerà a sostenere l'Ucraina, utilizzando possibilmente gli asset sovrani russi congelati e confidando che prima o poi la Russia accetti le condizioni minime di sopravvivenza richieste dall'Ucraina? O rinuncerà a difenderla, non lasciandole alternativa alla resa? La seconda decisione sarebbe devastante per l'Europa, un marchio indelebile nella storia che renderebbe conclamata la sua impotenza e inaffidabilità. Salterebbe l'adesione dell'Ucraina alla UE, che non potrebbe certo incorporare un satellite russo. L'Europa perderebbe il più importante alleato nella difesa del suo fianco orientale. Si creerebbe un precedente che attesterebbe la vulnerabilità dell'Europa, accrescendo il rischio di aggressioni e riducendo il suo potere negoziale in considerazione della sua modesta capacità di deterrenza. Crollerebbe la fiducia di Polonia, Baltici, Scandinavi e altri paesi membri centro-orientali nella capacità e volontà di difesa comune dell'Europa, con conseguente crisi del processo di integrazione. L'Europa assisterebbe impotente al trionfo della violenza e all'allontanamento della prospettiva di diventare soggetto politico in grado di concorrere alla ridefinizione dell'assetto geopolitico anziché subirne passivamente le conseguenze.
Tutto ciò non significa che l'alternativa sia priva di rischi. La prosecuzione del sostegno all'Ucraina dovrebbe accrescere, puntando con convinzione sull'utilizzo degli asset russi congelati, la sua capacità di difesa antiaerea, soprattutto da missili e droni, e di ritorsione sulle infrastrutture russe e rafforzare il supporto alla causa ucraina sul piano internazionale con una forte azione diplomatica e di mobilitazione dell'opinione pubblica mondiale. Ma se l'operazione non avesse successo e non arrestasse l'arretramento del fronte e l'indebolimento delle infrastrutture, le condizioni di resa peggiorerebbero ulteriormente. Vedremo nei prossimi giorni se l'Europa saprà predisporre con la prontezza, la compattezza e l'efficacia necessarie un piano di sostegno con adeguate possibilità di successo e quindi utile innanzitutto a sostenere le sue posizioni negoziali, o se si appresta invece a subire, con il pretesto di favorire la pace e dell'assenza di realistiche alternative, la proposta pro-Putin di Trump, previ eventuali ritocchi cosmetici per renderla più digeribile.
Questa situazione presenta una impressionante analogia con quella in cui si svolse la Conferenza di Monaco del 29 settembre 1938. Compiuta l'Anschluss, Hitler intendeva incorporare nel terzo Reich anche gli altri Paesi che avevano fatto parte del disciolto Impero Austro-Ungarico, cominciando dalla Cecoslovacchia. Con il pretesto di proteggere la minoranza di lingua tedesca dei Sudeti (tre milioni di abitanti distribuiti lungo i confini della Boemia), pretese l'annessione alla Germania del loro territorio, minacciando di occuparlo con la forza se non gli fosse stato concesso entro il 30 settembre. Per scongiurare questo evento, i leaderdelle quattro potenze europee (escludendo la Russia che non venne invitata) e cioè Hitler, Mussolini, Chamberlain e Daladier concordarono il 28 settembre di incontrarsi a Monaco l'indomani. Avendo già deciso di cedere alla richiesta, Chamberlain e Daladier, difensori della Cecoslovacchia il cui Presidente Benes fu lasciato fuori dalla porta, si preoccuparono solo di salvare la faccia presentando la resa come il trionfo della pace. Ma per cedere il territorio dei Sudeti la Cecoslovacchia fu costretta a far arretrare in pochi giorni il suo esercito, ben armato e saldamente insediato in quel territorio, su posizioni molto meno difendibili, mentre truppe e funzionari tedeschi occupavano le posizioni chiave del Paese, che sei mesi dopo venne costretto ad accettare l'annessione diretta (Boemia) o indiretta (Slovacchia) alla Germania. Un bottino ricchissimo, se si considera che la sola Skoda contribuì per un terzo all'armamento della Wehrmacht, il che tuttavia non impedì lo scoppio della guerra undici mesi dopo Monaco. Era inevitabile la cessione dei Sudeti, con tutto quello che ne seguì, o mancò il coraggio di vedere il bluff? Di certo segnò la fine dell'appeasement, ma era ormai troppo tardi. Forse è tardi anche ora per imparare la lezione, che tuttavia non può essere dimenticata.
L'Europa si trova dunque ad affrontare il rischio concreto della disfatta. Come abbiamo potuto giungere a tanto? Invocare lo stato di necessità per giustificare la ristrettezza delle scelte non ci esime dalle responsabilità, perché esso dipende dalla nostra incapacità di fare tempestivamente le scelte necessarie. Abbiamo ottenuto dal dopoguerra un grande successo sul piano economico, che abbiamo trasferito al piano sociale, ma non ci siamo preoccupati di tradurre in sicurezza l'importante potenziale che ne derivava, pensando di poter beneficiare all'infinito dell'ombrello americano e accettando di buon grado la dipendenza che comportava. Assetto felice per entrambi nel dopoguerra e in guerra fredda, ma successivamente fattore di freno allo sviluppo di una strategia di sicurezza europea da perseguire con l'unità e l'indipendenza dell'Europa quali presupposti per una efficace politica estera e di difesa. Tale strategia non venne avviata neppure quando le relazioni russo-occidentali ripresero a deteriorarsi e nemmeno dopo che l'invasione dell'Ucraina nel febbraio 2022 rese di tutta evidenza la fine della pace e il ritorno della guerra.
Il voltafaccia di Trump all'inizio del suo secondo mandato ha colto quindi l'Europa del tutto impreparata, in difficoltà a contrastare la Russia sul piano militare senza il supporto americano, nonostante la forte superiorità del suo potenziale di armamento convenzionale, e l'ha spiazzata sul piano diplomatico avviando alle sue spalle accordi separati con Putin, dopo che l'Europa era stata indotta dalle precedenti Amministrazioni a stelle e strisce a ricompattarsi con gli USA nello scontro con la Russia e a interrompere le buone relazioni con essa che pur persistevano. Con il suo voltafaccia, Trump si propone di porre fine a una guerra che reputa non prioritaria e troppo costosa per gli USA, pur avendo scaricato sull'Europa il grosso dei costi, e persegue tale obiettivo di per sé, a prescindere da ogni preoccupazione per le condizioni a cui può essere conseguito, secondarie di fronte al bene supremo della "pace" di cui si proclama alfiere. Cerca quindi di sfilarsi senza perdere la faccia dalla scomoda posizione di alleato (che a suo tempo aveva indotto l'Ucraina ad affrontare la Russia assicurandole tutto il sostegno necessario) assumendo quella di arbitro super partes. In realtà, sta favorendo la Russia e premendo sull'Ucraina perché accetti sostanzialmente una resa. Ucraina ed Europei, che cercano di negoziare condizioni per rendere la pace (o l'accordo) un po' meno ingiusti, sono additati quali guerrafondai nemici della pace, anche se sono loro a proporre, per iniziare il negoziato, la cessazione immediata delle ostilità sul posto, rifiutata da Putin.
Ma lo sbilanciamento pro-Russia di Trump è talmente evidente e la gestione negoziale talmente goffa per favorirla da far dubitare che la cinica pressione sull'avversario più debole per costringerlo a un accordo anche se sempre più simile a una resa sia l'unico obiettivo di Trump. Anche l'ipotesi che l'Ucraina possa essere merce di scambio in una nuova strategia, intesa a rendere la Russia meno dipendente dalla Cina, appare meno credibile alla luce degli esiti opposti a cui tale strategia sembra portare. Quale il motivo di tale atteggiamento allora? Una risposta importante ci viene dall'articolo di fondo pubblicato da Paolo Mieli sul Corriere della Sera del 26 agosto. Dopo aver espresso il convincimento, pienamente condivisibile, che Trump agisca in tutto e per tutto d'accordo con Putin, alla domanda "perché Putin umilia così platealmente Trump al punto da farlo apparire ridicolo?" Mieli si risponde: "perché se lo può permettere. Lui sì che ha le carte per poter trattare il presidente degli Stati Uniti come un guardamacchine. Non sappiamo di che carte si tratti ma è fuor di dubbio che al Cremlino le abbiano. E per i prossimi tre anni e mezzo … i russi non faranno mistero del possesso di questo tesoretto. Con le immaginabili catastrofiche conseguenze per quel che riguarda l'ottantennale leadership americana sull'Occidente." Parole che recepiscono opinioni diffuse, anche se raramente espresse con questa efficacia, da citare quindi testualmente.
Quali che siano i motivi del voltafaccia di Trump, resta il fatto che il rischio di disfatta a cui espone l'Europa è dovuto alla nostra incapacità di realizzare la sua unità e indipendenza, presupposti per poter gestire efficacemente una politica estera e di difesa intesa a garantire la sicurezza oltre che il benessere degli Europei.
Sarebbe quindi gravemente irresponsabile non inserire in questa prospettiva, neppure di fronte alla gravità del momento, le decisioni da assumere. Occorre, solo per ricordare le esigenze principali, definire gli interventi immediati per accrescere il sostegno all'Ucraina, decidere urgentemente come realizzare una forza di difesa europea di pronto intervento, avviare la definizione operativa della strategia, struttura, ripartizione e dispiegamento della difesa europea, definire le linee di un piano industriale di integrazione e sviluppo dell'industria europea degli armamenti stabilendone obiettivi e priorità, elaborare le linee della politica estera europea con particolare riferimento ai rapporti con la Russia, con gli Stati Uniti, con i partner europei e del resto dell'"Occidente", con la Cina e il Sud Globale. Funzioni che solo un governo federale può svolgere efficientemente. Nelle more della sua costituzione, che va comunque discussa e avviata subito, si dovrebbe creare un organo di governo provvisorio costituito dai rappresentanti degli Stati membri della UE che intendono aderirvi, integrati quali membri esterni dai rappresentanti degli altri Stati comunque interessati a condividere il progetto di difesa comune.
Tale organo avrebbe il duplice compito di predisporre il nuovo assetto istituzionale dell'Unione e di predisporre nel frattempo le decisioni comuni da far assumere agli organi attualmente competenti. Solo alcune di tali funzioni sono attualmente delegate alla UE, nonostante la nomina di un nuovo Commissario per la Difesa e lo Spazio, mentre il nuovo organo, creato ex-novo per volontà politica e senza vincoli burocratici ma collegato operativamente con la UE, avrebbe piena visione in materia, non sarebbe condizionato dai membri dissidenti e riporterebbe i "volonterosi" in un ambito istituzionale più corretto.
Un problema che si pone urgentemente è quello della NATO, che non può assolvere in prospettiva alla funzione di difesa comune europea, dati anche i conflitti di interesse con il Paese guida, ma che potrebbe assicurare, con i necessari adattamenti, la necessaria copertura nell'attuale delicato momento di transizione.
Disclaimer: le opinioni espresse nell'articolo sono dell'autore e non rispecchiano necessariamente quelle dell'ISPI.